Triste situazione del grandioso tempio catanese
Indegno abbandono della Chiesa di San Nicolò la Rena
Diciannove anni dopo il terremoto del 1990 la cupola è ancora incastellata e non restaurata – Le colombe
danneggiano il locale vastissimo, e la meridiana è semidistrutta – Colpe degli enti responsabili -
Semplicità e vastità, porte definibili dell’infinito. Non potrèbbesi definire con molti altri modi, il tempio monumentale di San Nicolò la Rena, che orna la semicircolare piazza e s’erge, maestoso a coronamento del monastero benedettino da alcuni anni sede delle facoltà universitarie, sulla collina detta della Cipriana, antico ricettacolo della Catania ellenica, soprastante il mare. Ancor oggi i turisti che ne varcano i fèrrei cancelli, sono sconcertati ed ammirati dalla visione di grandiosità ed immensità, oltreché dalla frescura, donata dai monaci benedettini, autentici artefici in unità co’ mastri intagliatori ed architetti settecenteschi, di cotal maraviglia. Il tempio, come si sa, dalla divisione dei beni ecclesiastici, è di proprietà (seppur negli ultimi tempi controversa) del Comune catinense. Ne scrivemmo su queste pagine nel 2005, a proposito del discusso restauro conservativo dell’organo, un tempo tra i giojelli della enorme chiesa, il quale fu di Donato del Piano. In quella occasione rammentammo come i lavori di consolidamento della cupola, opera finita nel 1780 e creata da Stefano Ittar, tra i massimi genì artistici del barocco mediterraneo (cavaliere di Malta, è fra l’altro il costruttore del palazzo Magistrale, ora sede del governo, della piccola isola), con l’imbragamento metallico interno della struttura danneggiata dal terremoto detto di Santa Lucia (13 dicembre 1990), sia per la parte esterna che per l’interno, andassero a rilento. E’ davvero indegno constatare come, dopo quattro anni dalla nostra ricognizione e ben diciannove anni dall’infausto tremuoto, mentre –vien da citare il felice esempio- la cupola del Duomo di Noto, anch’essa giojello del barocco siculo, fu sapientemente restaurata e rimessa in piena sicurezza recentemente, la nostra sacrale dominante attraverso il lucernario l’intiera città, versa in stato di abbandono da parte del Genio Civile che, per legge, ha la responsabilità della sua ricostruzione.
Da notizie raccolte dal personale ivi operante, pare che i tecnici del Genio avrebbero dovuto riprendere i lavori di restauro, più volte negli anni interrotti, nel febbraio scorso: epperò nulla si fece e tutto è fermo allo stato attuale, come l’immagine fotografica qui riprodotta può documentare. Caso davvero gravissimo e deplorevole non soltanto per le amministrazioni comunali succedutesi negli anni che avrebbero dovuto avere il dovere etico di ottenere dai responsabili del Genio Civile il sollecito riscontro dei lavori, ma anche per l’assenza di quella che un tempo si appellava coscienza civica, ossia un mòto d’opinione spontaneo e disinteressato da parte dei cittadini, per la salvaguardia di un monumento che è prezioso ed intangibile per ognuno. Solamente si osservi che la struttura metallica che sorregge la cupola, da oramai più di tre lustri, deturpa vilipende e danneggia in modo davvero barbarico la grande e suprema meridiana, voluta e fatta costruire dai monaci nel 1841 attraverso l’opera del Barone tedesco Waltershausen e del dottor Peters: e se di codesti astronomi le figure son state ricordate qualche anno fa attraverso una pellicola cinematografica ivi girata (e poi stranamente scomparsa dai circuiti, mentre l’uso didattico della stessa avrebbe magari spronato all’interesse per la costruzione), la meridiana, di cui pochi scrivono e s’interessano, vèrsa in stato di deplorevole abbandono. Anche se qualche anno fa volontari del locale circolo astrofili, validamente coadiuvati dal collega Luigi Prestinenza, ne curarono il restauro dei bei simboli-segni zodiacali in pietra, mentre l’iscrizione latina che ne rammenta la costruzione è ancora semisgretolata, dai 21,9 metri dello gnomone il raggio che ogni mezzodì, "con una approssimazione a meno di un secondo" (rammentavano le guide di fine ottocento) colpiva i 37,36 metri della marmorea lastra, è offeso e spezzato, quasi che simbolicamente pure al sole sia stato impedito di compiere col suo guidato ‘dito’, la carezza precisa della Natura plasmata dall’homo scientificus.
La chiesa enorme, a’ tempio suoi ideata dal Contini architetto insigne di Roma e completata, per tutto il Settecento, dagli Amato, dai celeberrimi regj architetti Battaglia, la cui facciata ciclopica è come si può vedere rimasta incompiuta, documentando nei secoli la potenza non già e soltanto materiale, ma esoterica del corpo vitale dei figli di San Benedetto, se fino al primo Ottocento accoglieva tra gli otto enormi bianchi pilastri che dividono le tre navate –quella centrale è di 105 metri- la festa augusta del Santo Chiodo, seconda per solennità e sfarzo solo a quella di Sant’Agata, e dal 1926 ospita il sacrario dei Caduti delle due guerre, ora oltre i turisti è ricettacolo delle colombe. Poiché il Comune, nella attuale sua amministrazione, non è neppure capace attraverso l’Assessore al ramo, che si pasce di altre e ben più remunerative politicamente, faccende, di inviare alcuni operaj dell’ufficio manutenzioni al fine di sostituire dei vetri ròtti da mesi, i pennuti invasivi han preso possesso non solo del vastissimo locale, ma anche depositano i loro escrementi –i quali è noto esser dannosissimi- entro le cànne del restaurato organo, compromettendone così la già non grande (chi ricorda la sera della sua inaugurazione nel 2005, ne ha contezza) funzionalità. Ciò accade da tempo, altresì vanificando il lavoro –ed i finanziamenti, pubblici- ricevuti a suo tempo e spesi in cotal opera. Vero è che i visitatori da qualche anno, previa firma del foglio di manleva da parte del Comune (anche su ciò vi sarebbe da discettare) possono accedere al cosiddetto percorso di gronda, cioè salire quel centinajo circa di gradini che, attraverso una scala circolare, potrano sui tetti della chiesa, godendo così di panorama unico e spettacolare: atto codesto che mitiga in parte le storture, le quali però sono evidenti.
Nel tempio, anzi nella sagrestia di esso, l’ivi residente (in ala attigua del monastero) sacerdote Don Pino Ruggieri, celebra Messa ogni domenica pomeriggio: altra strana anomalìa, per la quale si ritiene la Diocesi abbia dei motivi, onde non solo far abitare un sacerdote per quanto autorevole all’interno delle mura di un complesso già ecclesiastico, però da oltre cento anni statale, e non inviare un prete, magari benedettino (come fece l’allora Arcivescovo Bommarito, autore del ritorno della Comunità cassinense in Catania: ora questa alloca nel monastero poco fuori Nicolosi, sull’Etna) a dir Messa in orari mattutini, o comunque cònsoni alla partecipazione di molta più gente che i pochissimi frequentanti le funzioni del suddetto sacerdote. Forse, la si interpreti come ipotesi magari straordinaria ma verisimile per chi ha interessi oltre il solo ambito razionale, il tempio come l’intiero complesso monastico sono ancor sotto l’effetto della ‘maledizione’ del beato Cardinale Dusmet, l’angelo dei poveri, il ‘padre’ spirituale dei catanesi di fine Ottocento, colui che vendette il proprio pettorale per distribuire il ricavato ai poveri, dopo i tristi effetti del colera (curiosa circostanza, proprio nel tempio benedettino, il 2 febbrajo di quest’anno, viene rubato il pettorale all’attuale Arcivescovo Gristina: affollatissima di poliziotti la chiesa in occasione della commemorazione della morte dell’ispettore Raciti, non si è più riusciti a trovare il ladro…). Il Dusmet, ultimo abate del monastero, assisté alla consegna di esso alle autorità del governo nazionale, nel 1870: la chiesa aveva sofferto l’invasione dei garibaldini nella spedizione del maggio 1860, i quali, alcuni, pare che ivi abbiano compiuto sconcezze di tipo satanico; il sant’uomo dunque, si racconta avesse pronunciato delle parole di terribile sdegno contro coloro che in quel momento storico, e fino alla Conciliazione del 1929, erano gli "usurpatori" dei beni della Chiesa. Parole che impedivano ai reggitori ‘laici’ di aver pace in quel luogo. Certamente il tempio negli anni seguenti è stato tormentato da molti eventi funesti: le tele rubate e poi sostituite da copie, quelle attuali; l’invasione dei carri armati inglesi, nell’agosto 1943 al suo interno; la spoliazione delle canne dell’organo originario e di altri arredi sacri; la storia dai contorni poco chiari delle cosiddette ‘messe nere’, che portò alla tomba un valente studioso, per crepacuore; le sempre insistenti ‘voci’ di presenze, fantasmi asseriscono alcuni convintamene, all’interno ed anche all’esterno del complesso; le ultime vicende anzidette. Meglio non scherzare e prender sottotono i santi, e le loro volontà: specie se si tratti di colui che fermò le lave dell’Etna, a piedi nudi, nel 1886 alle porte di Nicolosi. Piuttosto ci si affidi, per chi crede, al patrono della chiesa San Nicola qui detto "de harenis", venuto dal mare, di cui Dante rammenta la virtù: "…della larghezza \ che fece Niccolò alle pulcelle \ per condurre ad onor lor giovinezza" (Purg.XX, 31-33), alludendo alla storia del Santo che gittò tre borse con monete d’oro in casa di un uomo che era quasi per avviare al meretricio le tre figlie, non potendole maritare per estrema miseria.
Quelle tre borse auree aiutino a comprendere quanto, a fronte dell’avarizia, s’illumini di Vera Luce la santa povertà evangelica; e dai sette gradini percorsi i quali dal sagrato si accede a quel tempio, si invochino i sette angeli-pianeti, alla cui sommità il ‘deus absconditus’, veglia e rende morte ai rei, giustizia ai giusti.
Barone di Sealand
(Pubblicato su Sicilia Sera n°319 del 5 luglio 2009 - fotografia di Francesco Giordano, scattata nel maggio 2009)
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