lunedì 2 agosto 2010

Salvatore Gristina, da otto anni Metropolita di Catania


Da otto anni regge la diocesi etnea


Salvatore Gristina, un Vescovo di valore

Dotto e fermo nella applicazione della dottrina, fedele al Concilio, applica i precetti dell’umiltà e della carità – Un Arcivescovo verso il popolo -


Dominus regit me, et nihil mihi déerit", ‘il Signore mi governa, e nulla mi mancherà’: il meraviglioso inizio del Salmo 22 può a nostro parere essere un ottimo augurio, per gli otto anni che in questi dì si compiono, dacché alla guida dell’Arcidiocesi di Catania è Monsignor Salvatore Gristina, Vescovo Titolare di Musti in Numidia e dal prestigioso passato nella diplomazia vaticana, autorevole coadiutore della Diocesi di Palermo, nonché Vescovo di Acireale. Il pastore delle anime di Catania, lo rammentiamo, nominato dal Santo Padre Giovanni Paolo II il 7 giugno 2002, si insediò nell’agosto di quell’anno, accolto dalla festante popolazione. Succedeva a Luigi Bommarito, che sin dal 1988 aveva con mano sapiente guidato il Vescovato di Euplo e di Leone il taumaturgo: uomo estremamente comunicativo, impresse il suo stile peculiare ed al passo con i tempi che mutavano. Con lui la diocesi di Catania conobbe rinnovato vigore, e fu elevata a Metropolìa.
Mutatis mutandis, come è naturale nell’ordine dei fatti umani, che tuttavia hanno il beneplacito dello Spirito Santo, in questi otto anni di governo dell’Eccellenza l’Arcivescovo Gristina, si è assistiti ad un tono di rettorìa della diocesi differente dalle precedenti abitudini, con alcune, importanti, peculiarità. E’ innegabile nel popolo minuto adagiarsi ad inutili paragoni: certo è che Mons. Gristina, palermitano di Sciara (ove nacque nel giugno del 1946), uomo estremamente còlto, sobrio, che non ama apparire e mostrarsi sovente ma nella sostanza definire il "de sensu rerum", ha voluto e continua a desiderare di lanciare, alle masse dei fedeli come ai più fini orecchi, un messaggio sottile e preciso, importante e non scevro da profonde sollecitazioni. Egli –lo si nota dalle prediche- a volte sfiora argomenti fondamentali, in altri casi li scevera con vasta mèsse di argomentazioni eloquenti e brillanti, tanto da non far dimenticare, a coloro che hanno il dono della memoria e porte aperte ai carismi della spiritualità, il crisma della sua ordinazione sacerdotale.
Egli è stato infatti consacrato sacerdote il 17 maggio 1970 (simbolismo dènso di significati: il diciassette, giorno della stella, ed il mese mariano di maggio, "in spe resurrectionis") in Roma dalle venerabili mani di quell’illuminato Pontefice che fu Papa Paolo VI: egli, lo schiuditore del Concilio che copia di umanità fraterna ha prodotto nella Chiesa e fuori dalla Chiesa, così esprimevasi a riguardo della fede: "La fede, si dice, non è il dogma verbalmente considerato; questo consiste in formule fisse che tentano di definire e di racchiudere verità immense, ineffabili e inesauribili. E sta bene: anche San Tommaso c’insegna che l’atto di fede non termina alle formule che la espongono, ma alla realtà a cui esse si riferiscono; non senza però una visione integrale di questa dottrina… per rendersi conto dell’essenziale importanza che il Concilio, coerente con la tradizione dottrinale della Chiesa, attribuisce alla fede, alla vera fede, quella che ha per sorgente Cristo e per canale il magistero della Chiesa" (8 marzo 1967, in Oss.Rom.). Sotto l’augusta guida di cotal dottissimo Papa, il nostro Arcivescovo non poteva che essere anch’egli sapientemente illuminato dal cammino della Vera Fede e –come egli medesimo ha affermato nel giugno scorso, durante l’allocuzione finale del Corpus Domini, in piazza del Duomo- disposto ogni giorno ad insegnarla e spargerla, come i cinque pani e due pesci dell’evangelica novella, ai cari suoi fedeli catanesi. In verità in quella occasione, come in altre, il Vescovo Salvatore ha mostrato l’umiltà tutta cristiana di sentirsi in ambasce, quasi in difficoltà, nello spezzare il pane della mensa santa: ma dalle pagine del Sacro Libro egli coglie, precisamente nella lavanda dei piedi che come altri quadri, è uno dei simboli più forti del ministero di Cristo, la forza della umiltà e della coerenza, nella fraterna comunione dei consacrati in Gesù e del popolo. Verso il cui popolo, molti in questi otto anni (il cui numero è precisamente quello delle evangeliche beatitudini: nulla accade per caso, nelle superiori volontà…) sono stati gli affettuosi, paterni accenti dell’Arcivescovo: egli è uno di loro, e specialmente dei più bisognosi, dei più sofferenti, dei diseredati, di coloro che hanno bisogno –come insegnò il Beato Papa Giovanni- di "qualche lacrima da asciugare". Lo abbiamo veduto e udito, possiamo testimoniarlo: egli non si sottrae financo a ruoli che potrebbero non competergli (un giorno di anni fa, innanzi Sant’Agata la Vetere, primiera cattedrale, lo osservammo scendere dall’auto blu e spostare, come un qualunque perpetuo, i pesanti vasi di fiori onde permettere più largo spazio innanzi al sagrato…) e neppure risparmia parole dure e chiare a chi quasi le sollecita (in un recente incontro coi giovani imprenditori del Kiwanis, ad una dissertazione sul lavoro, chiedeva: "Tra di voi c’è qualcuno che non lavora? Ed allora", con un sorriso sornione, "come potete comprendere i problemi di chi il lavoro non l’ha?", facendo rimanere basito l’uditorio: ma compiendo il precetto divino). Interpreta la missione commessagli con santa umiltà e divina carità. Comprensivo con tutti: anche nel caso della applicazione del Motu Proprio del Sovrano Pontefice Benedetto XVI, che apertamente lascia la libertà accanto alle funzioni secondo il rito nelle lingue nazionali, di celebrare la S.Messa seguendo il Messale in lingua latina preconciliare, Monsignor Gristina ha accolto con fraterna benevolenza la richiesta di molti fedeli, e consentito che anche a Catania, come in molte altre diocesi, un sacerdote preparato ed entusiasta della dottrina tradizionale come di quella conciliare, pòssa officiare il sacro rito in un tempio di secoli càrco ove le lodi di Dio siano intonate con magniloquenza. E del resto egli medesimo non è estraneo a parteciparne i sentimenti: lo vedemmo alla chiusura del mese mariano in S.Maria dell’Aiuto, intonare con perfezione e saggezza il "Pange lingua". Un Arcivescovo a nostro parere completo, dunque: fermo nel messaggio di Luce che scaturisce come gemma preziosa dal Concilio Vaticano II, vicino alle molte forme della incrollabile Tradizione della Chiesa, che ne formano un prisma unico ed inscindibile. E’ un uomo di valore, che l’Altissimo lo serbi con felicità alla catinense diocesi per lungo tempo ancora. Con la chiusa del citato Salmo 22, "Et ut inhàbitem in domo Domini in longitùdinem diérum", ‘affinché per lunghi giorni io abiti nella casa del Signore’.

Bar.Sea. (Francesco Giordano)
Pubblicato su Sicilia Sera n° 331 del 1 agosto 2010

Raffaele Lombardo: è tempo delle scelte


Le analisi che propongono significati


Timoleonte o ‘Ntoni Malavoglia: la scelta di Raffaele Lombardo


Carattere ferreo, il Presidente della Regione ha inteso avviare un percorso
di orgogliosa identità autonomistica – Col concorso di molti: ma il tempo stringe -


Il discorso che il Presidente della regione Sicilia Raffaele Lombardo, ha pronunziato nell’assise del Parlamento siculo il 13 aprile u.s. (per chi sa del significato de’ Tarocchi, il tredici è numero di morte, ma anche di rinascita), rappresenta invero un autentico spartiacque per la politica regionale. Mai in sessantaquattro anni, dacché la maestà del Re ‘maggiolino’ Umberto II, dopo la lotta per l’indipendenza sicula culminata còlla infausta battaglia di Randazzo del 1945, e l’onda popolare trionfante del MIS, concesse lo Statuto che proclamava, finalmente dopo secoli, l’autonomìa nazionale del popolo siciliano (facendo seguito alla Costituzione ‘inglese’ del 1812 ed a quella ‘francese’ del 1848), un Presidente di regione si spinse a tal punto da non solo difendere il suo operato ed attaccare i propri nemici –atti del resto comprensibili-, ma anche, e ci pare il dato trascurato dai più, identificare le proprie sorti con quelle medesime della gente che, volente o nolente, egli rappresenta. Sòrta di ‘cesarismo’ regionale: dimostrazione di potenza secondo gli avversari, o piena consapevolezza delle proprie forze e del particolare frangente politico e sociale nel quale si vive? La certezza è che Raffaele Lombardo, di cui da queste colonne circa un settennio fa precisammo che è uomo di carattere (anche per i baffi… dato da non trascurare…), ha tracciato un solco profondo fra sé, la sua figura ed il suo partito, attuale e nascente in altre forme, e le vecchie logiche di potere, da lui stigmatizzate con particolare coloritura dei "pupi dei pupi dei pupi": metafora precipuamente chiara ai siciliani, affondante le radici in un linguaggio simbolico immediatamente comprensibile a tutti.
Vero è che il Presidente Lombardo, come ha detto, si confronta de visu con chiunque: impenetrabile può apparire, a chi d’improvviso intenda contattare lui od i maggiorenti del suo partito. Ma come dell’oro il fuoco scopre le impure masse, svelatasi la Luce autentica dietro il volto atteggiato al sorriso, così l’interlocutore, ove abbia la necessaria capacità, può scorgere oltre il velo ed i segni, l’autentico pensiero di quest’uomo affatto necessario, alla Sicilia del secolo XXI. Egli ha evidentemente chiaro il frangente cruciale della attuale fase politica nazionale ed internazionale: il futuro è nel federalismo delle ‘piccole patrie’ e, se il Presidente baffuto e dall’eloquio affabulante e modulato nei toni, rammentante il prorompente Giovanni Grasso, il più grande attore tragico italiano del XX secolo del teatro di prosa, vuole essere già da oggi e nel futuro, il padre vero’ della Sicilia risorta al concetto antico e nuovo della autonomìa –che, per coloro i quali lo sanno intendere e, meglio, gestire, diventa indipendenza de facto se non de jure, dallo stato centrale- deve agire nel modo che ha dimostrato nel rispondere, con veemenza e passione, ad un attacco invero assurdo e vile, posto in essere da settori che sarà compito della Magistratura accertare quali siano. Ed ove allignino delle ombre, ma assolutamente accertate, sul suo personale operato, si potrà ridiscutere. E’ comunque un fatto distruttivo della personalità di chiunque, come si è notato in altri casi, ricevere accuse ‘sì gravi come quelle di concorso esterno in associazione mafiosa, senza aver neppure, sino a quel giorno, ricevuto un avviso di garanzia. Gli avversari potranno discettare all’infinito: ma questi son fatti, e vanno accolti per ciò che significano.
Riguardo ai due anni trascorsi al governo della Sicilia, da molte parti giungono, e raccogliamo, voci di critiche e dissenso all’operato della giunta presieduta da Lombardo: per molti le scaturigini sono livori e rancori che hanno riscontri personali: l’opera di risparmio del governo ha ‘tagliato’ fondi nel modo più deciso, ad associazioni varie, mietendo ‘vittime’ laddove aveva prima interessati sostenitori. E’ comunque scandaloso, come apparve dalla stampa, che taluni funzionari regionali vadano in pensione con appannaggi favolosi, i cui proventi sarebbe bene destinare ad opere di utilità e giustizia sociale (qui il governo regionale deve per forza agire per sanare codesta piaga). Però Raffaele Lombardo bene ha fatto a sgomberare l’orizzonte dai falsi amici, dai finti sostenitori (ed anche dai finti, e ce ne sono, sicilianisti) che, laddove privati delle prebende, si tramutano da colombe in jene, da sodali in fierissimi nemici. Gente che si vende per denaro e non ha niuna idea che quella di Mammòna, è affatto meglio gettarla nella Geènna infernale.
A questo proposito, importantissima apparve l’affermazione che il Presidente nonché capo dell’MPA fece l’undici aprile, nell’intervento suo conclusivo di un convegno su "Giovani donne e autonomia" tenutosi all’albergo catanese Excelsior: "chiunque percepisca la sua quota, da amministratore, deve versarla nelle casse del partito", ha egli còlla solita enfasi dichiarato. E’ una visione riorganizzativa del suo movimento che rammenta i primi tempi, quelli detti ‘eroici’, dei partiti di massa, popolari, come la nascita della DC, od anche altri e piccoli movimenti fideistici il cui unico obiettivo è l’ideale, a cui primariamente si sacrificano tempo ("dovete venire in sede il sabato pomeriggio", egli ha detto ai dirigenti) e denaro: anzi il pubblico denaro percepito dagli appannaggi, che deve confluire nella cassa comune. Non forse codesta affermazione avrà fatto felici alcuni, ma l’opinione di Raffaele Lombardo, in quel consesso testè citato, fu chiara: "chi ci sta, bene, chi non ci sta, può andare alla porta". Non appaiono codeste le parole di un uomo accomodante, bensì decise di piglio e di tenore. Tuttavolta, dal mutamento dell’indirizzo politico della Regione, a dicembre, ipotizzammo alla giunta Lombardo alcuni mesi di garanzie: questo tempo, che è prezioso come non mai oggi, sta per scadere nell’interesse dei siciliani, sempre più impoveriti dalla crisi economica (anche se in giro se ne mistificano i segnali, essendo la nostra una economìa ‘drogata’ dall’illegalità): per cui non saranno le movimentazioni della finanziaria dell’ARS (che costa sempre più cara a noi tutti, quattro milioni di Euro in più del 2009 nel recentemente pubblicato bilancio di quest’anno) a salvare la fallimentare gestione della politica sicula degli ultimi tempi. Attendiamo quindi, e con estrema rapidità, che dalle parole si passi ai fatti. In primis, nel settore della giustizia sociale, versus lavoro (e non sono i ‘voucher’ od altre amenità sino a qui strombettate, a risolvere il grande problema). E’ questione, appunto, d’onore.
Proprio il concetto dell’onore, che Raffaele Lombardo ha miscelato coll’onore di tutti i siciliani, il quale è assolutamente infangato dalle vicende ‘mafiose’, è importantissimo per ben comprendere la chiave, diremmo quasi psicologica e sociale, del nostro comune futuro come collettività regionale.
"Sicilia, la terra ove germoglia la pianta dell’onore", cantava circa novecento anni fa il grande poeta siculo-arabo Ibn Hamdis: questa visione del mondo, poiché tale è, incrostata e travisata da interpretazioni malandrine e delinquenziali che nulla hanno a che vedere col suo vero significato, appare ammantata di nobiltà, dal più alto scranno della politica sicula, attraverso le parole del Presidente Lombardo. Il quale chiama i siciliani ad una correità aperta: o si cambia mentalità, processo profondo che richiede decenni e deve essere affidato alle giovani generazioni di uomini e sopra tutto di donne, codeste figure indispensabili della nostra società, poiché madri e genitrici delle mèssi allegoriche e reali del futuro, nell’intendere l’autonomìa e quindi il progresso tutto dei siciliani: o si sarà ancora una volta, come per secoli, preda dei conquistatori. Del nord, o ascari, o barbari che siano, non importa: sempre conquistatori co’ loro scherani, essi risultano. Ma (ed è dunque un chiaro monito che si staglia adamantino all’orizzonte, dati i grandi poteri che anche la nuova coalizione col PD e forze collaterali del PDL manifestano) è proprio il Presidente Lombardo che deve dare in prima persona l’apporto fondamentale alla svolta: incominciando dall’atavico e quasi mai risolto problema del lavoro dei siciliani.
Nel turbine dell’ultimo conflitto mondiale, un autorevole personaggio quale Andrea Finocchiaro Aprile, si erse a simbolo della sicura resurrezione dal potere centrale dello Stato, e tentò, invano, di plasmare de facto una moderna forma di autonomismo, anche sociale ed imprenditoriale. Figura che il Presidente Lombardo ben conosce: dalle cui ispirazioni illuminate, è da trarre il necessario. Tuttavia, andando ben indietro tra le pagine della Storia, egli può comportarsi come il corinzio Timoleonte il quale, venuto in Sicilia, nel 345 a.C. liberò le città stato dalla soggezione cartaginese ed impose a Siracusa una costituzione democratica; depose il potere, e visse cieco ed onorato sino a morte; ma può anche far ripetere a’ siciliani l’adagio di ‘Ntoni, "ora che so ogni cosa, per questo devo andarmene", nella tragica chiusa del verghiano romanzo dei "Malavoglia". Raramente delle così immense e dènse di storia possibilità, sono nelle mani di un uomo, di un mortale che crede nel Vangelo: "Siamo servi inutili, abbiamo fatto quello che dovevamo fare" (Lc.17,10). Rendere liberi e rispettati i siciliani in casa propria: con la collaborazione di molti, se non è un sublime inganno, ci si può riescire.


Barone di Sealand (Francesco Giordano)


Pubblicato su Sicilia Sera n° 331 del 1 agosto 2010