Allestimento che rispetta la classicità dell’Ars Decò al cui tempo nacque, pubblico delle grandi occasioni alla première dell’ultima opera della stagione 2017 del teatro Bellini di Catania, sera del 10 dicembre, con “Vedova Allegra” di Franz Lehar, l’operetta più conosciuta e rappresentata del repertorio del compositore austriaco.
Allestimento che rispetta la classicità dell’Ars Decò al cui tempo nacque, pubblico delle grandi occasioni alla première dell’ultima opera della stagione 2017 del teatro Bellini di Catania, sera del 10 dicembre, con “Vedova Allegra” di Franz Lehar, l’operetta più conosciuta e rappresentata del repertorio del compositore austriaco. A Catania mancava da anni, e questo grande ritorno, per la regìa di Vittorio Sgarbi (presente all’opera nella duplice veste di neo Assessore regionale ai beni Culturali della giunta di Nello Musumeci) si è rivelato all’altezza delle aspettative di un pubblico qualificato il quale, dalla platea al loggione, non ha mancato, in una fredda serata semi invernale, di far sentire il proprio calore agli interpreti attori cantanti e tutta la compagnia, che ha voluto rappresentare la notissima operetta inno all’amore nella sua forma più tradizionale, infarcita da intrecci e giravolte ove si notava non tanto l’esprit dell’epoca (la prima rappresentazione di Vedova è del dicembre 1905, diretta dallo stesso autore), quanto la universalità di certe situazioni, amori e “menàge a trois” che non hanno tempo né barriere sociali.
È chiaro che la storia del
Pontevedro fallito che aspetta come una mànna i milioni della ricca vedova Anna Glawari che si dà bel tempo coi molti corteggiatori, anche se ha nel cuore il Conte Danilo, è eco di giorni in cui le Monarchie erano al centro del tessuto sociale europeo con ciò che comporta: Pontevedro per noi italiani vuol dire il piccolo Montenegro da cui provenne la Regina Elena di Savoia, dama della Carità e benefattrice del popolo. Ma anche appare evidente che le potenzialità vocali della soprano splendida Silvia Dalla Benetta, risultarono trasparenti e senza sbavature, sia nelle arie conosciute come la canzone della Vijlna, che in altre parti dell’opera, la quale originariamente in tre atti, qui si è “letta” in due coi suoi tempi e adattandola agli anni post duemila, nel libretto almeno. Il testo tedesco è stato trasposto in italiano (con dei sottotitoli in lingua inglese a nostro parere superflui sopra il palco; scorreva anche il testo italiano non sempre eguale al recitativo degli attori); voce maschile bellissima quella del Conte Danilo, in questo caso interpretato dal grande tenore Fabio Armiliato, qui nelle vesti operettistiche, dopo i suoi innumerevoli successi in tutto il mondo, sia da solista che accompagnato, sino alla immatura dipartita, dalla compagna d’arte e di vita Daniela Dessì, le cui doti umane e sopranistiche non rimpiangeremo mai abbastanza. Armiliato fu un Danilo perfetto, seppure proprio la parte del Conte non consente al massimo l’espressione delle qualità vocali del nostro artista, le quali tuttavia chi conosce, non può che superbamente apprezzare (basti pensare ai suoi ruoli in opere sia belliniane che di Giordano e altri).
Il personaggio di Danilo afferma di “innamorarsi sempre, fidanzarsi raramente, sposarsi… mai!”, ed è filosofia di vita anche se alla fine, sia per motivi strategici che sentimentali, cede all’agognato matrimonio con Anna:
metafora dell’Essere ove, ieri come oggi, se alcuni non hanno pazienza di attendere i tempi giusti e immaturamente scappano via prima, tale connubio -che Armiliato tracciò sapientemente- non può che intonare l’imenèo della Vita immortale, nelle armonie dei ritrovati cuori di chi prima si amò, si è ritrovato e non più si lascerà.
La novità in versione sicula, anzi catanese, la diede l’estroso Sgarbi nella figura del servo Njegos, in cui vedemmo un Tuccio Musumeci, attore conosciutissimo dal pubblico locale per i suoi ruoli nel teatro dialettale allo Stabile e in lingua, da oltre sessanta anni (l’ultra ottantenne Tuccio saltò e ballò con grande serenità) sui palcoscenici, recitare in inserzioni di lingua dialettale che avrebbero fatto rabbrividire il povero Meilhac (e provocato l’irruzione delle SS hitleriane, il Fuhrer amava alla follìa quest’opera), ma in una città che ha bisogno di indugiare a certa “catanesità spicciola”, chiamiamola così, è stata ben accetta, anzi premiata da intensi applausi.
Da registrare l’ottima esibizione canora e recitativa del nostro tenore etneo Riccardo Palazzo nel ruolo del Visconte di Cascada, che fece bellissima impressione di scioltezza vocale ed aglità scenica, perfetto “serafino” della bella Anna, e del mezzosoprano Sabrina Messina, anche lei bella voce siciliana, che fu all’altezza delle aspettative in Praskovia. Bravo e spigliato Armando Ariostini nel ruolo del Barone Zeta, incisivo Emanuele d’Aguanno in Rossillon, ottima la nostra soprano Manuela Cucuccio nel ruolo di Valencienne, lode al direttore Andrea Sanguineti, attenta la Maestra del Coro Gea Garatti (l’allestimento è della fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, voluto proprio da Sgarbi), cast bene organizzato, finale con lancio di fiori uso nordico, hanno suggellato la chiusura dell’operetta, ove l’aria più applaudita fra Armiliato e Dalla Benetta, “Tace il labbro…”, venne a sigillare il cerchio di quei palpiti dell’anima che se vi si crede mai tramontano; se nella malinconia della sera, “il valzer è un sentimento che si balla”, come recita il testo di Vedova, si augura che qualche sprazzo di umanità sia rimasto nei partecipanti (e in coloro che seguirono in diretta l’opera dal maxischermo allestito in piazza Università per amplificare l’evento), poiché in tempi avari di sentimento e densi di ipocrite maschere, si ha estrema necessità di intonare novellamente inni di purezza, che il messaggio intimo di Vedova Allegra contiene.
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