sabato 22 dicembre 2012

I "Nanareddi" al castello di Leucatia, la Tradizione del Natale in siciliano rivive con "I Colapisci"


        

   I "Nanareddi" al castello di Leucatia, la Tradizione del Natale in siciliano rivive con "I Colapisci"

Se la conservazione, il ripristino, la valorizzazione delle Tradizioni popolari di Sicilia ha un senso ed un valore universale, nell'Isola del Sole dove "è la chiave di tutto", scriveva il Goethe, la rappresentazione scenica della Novena natalizia, che si è data sabato 15 nella sede del castello di Leucatia, a cura di Gianni Sineri e dei "Colapisci Band Orchestra", ha una notevole importanza in ciò che può essere definito il filo della memoria, la trasmissione della fiaccola.
Poichè alla bravura e alla operosità brillante di Sineri (figlio d'arte: indimenticabili i genitori Ciccino Sineri, attore di sceneggiate e teatro, e Sara Micalizzi) che ha spiegato al folto pubblico convenuto nella sede della Municipalità catinense di Barriera che ha ospitato l'evento, il gruppo dei "Colapisci" (sei elementi, tra cui ci piace ricordare l'amico giornalista e scrittore Santo Privitera, esibitosi al mandolino), il significato di quello che era in decenni trascorsi il Natale "dei poveri", si rapportano i cosiddetti "nanarèddi", ovvero i cantori e mùsici i quali giravano per i quartieri popolari di Catania e  innanzi alla cosiddetta "còna", ossia al quadro adornato di erbe campagnole (la sparacogna) e arance, intonavano i  canti in onore a Gesù Bambino ed alla Sacra Famiglia, rigorosamente in lingua (non dialetto: la questione la chiarì Dante nel de Vulgari Eloquentia, ma lo si dimentica spesso e artatamente) siciliana. I musicanti avevano un peculiare metodo, spiegato da Sineri, voce narrante e conservatore nonché abile divulgatore delle storie, per creare il rapporto di fiducia con gli abitanti del quartiere, del rione o del "curtìgghiu" dove si esibivano. Dònde l'origine di espressioni traslate nel gergo verbale, come "ti mangiasti na còna", "appara u saccu", "mentici 'a junta", e simili.
In questo quadro scenico, il poeta e il cantante, rigorosamente istintivi, a volte analfabeti ma densi di immensa umanità, ebbero un ruolo indispensabile: non era la Poesia alta de' trobadori alle corti dei signori nei castelli, ma quella del popolo (a Catania nasce con Androne nel VII secolo a.C., la poesia cantata e ballata), tanto amata dalle masse e dagli artisti sòmmi (da Mozart a Bellini, tutti attinsero ai canti popolari) così medesimamente vituperata da coloro i quali, nella loro bòlsa prosopopea, s'illudono che il Verbo debba essere appannaggio di elette schiere e non spezzato, come il pane dell'ultima cena, "pro multis" (vero, non per tutti, ma pe' molti): in particolare per gli ultimi, i poveri.
Quindi un Natale povero quello rinarràto dai "Colapisci" al castello di Leucatia, per l'occasione affollato di gente che si è piacevolmente dilettata in un'ora di denso spettacolo, come adesso può chiamarsi: esso tuttavia è quadro scenico memorabile di epoche inevitabilmente tramontate ed irripetibili, che merita per l'intensità del pathos e soprattutto per la conservazione della memoria, di essere ripetuto e diffuso nei luoghi per eccellenza dove si tramanda o si dovrebbe, la cultura: le scuole di ogni ordine e grado, sia private che pubbliche. E' questo il finale auspicio, che le nènie struggenti di commozione dei "nanareddi" inneggianti al "Bambineddu" fluiscano nel cuore dei pargoli siciliani, i quali possono, ben più degli adulti, comprenderne il senso.
FGio

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